“Per distruggere un olivo bisogna sradicarlo. Eliminarne le radici scavando la terra finché non ne rimanga più traccia. Ecco perché l’olivo è anche un simbolo d’immortalità […] Creature antiche, umili, monumentali, sacre.”
Stefania Auci, L’inverno dei leoni. La saga dei Florio, p. 181.
Ulivo. Una pianta primigenia che tutte le contiene e annuncia, principio di tutte le piante che evoca la nascita del mondo. La sempre vincente fatica dell’ulivo conosce oggi la sconfitta, è vita disseccata. Crocefisso nell’aria, nudo, senza uccelli nel convulso contorcersi dei rami spogli, privo di ombra, l’ulivo dichiara il suo tempo concluso nel legno del tronco, nelle vene che percorrono la corteccia malata. Spesso per chi sa leggere, è un tempo lontano che la nostra memoria non può dominare, libro in cui è narrata la sua storia.
Sergio Camin viene da lontano. Da 22 anni collega gli antipodi di questa Italia che si allunga nel Mediterraneo fino all’estremo sud; viene dal Trentino Alto Adige, luogo di montagne e di boschi, e trascorre parte dell’anno nel Salento che sembra galleggiare tra due mari. Il suo paesaggio compare come lontana linea d’orizzonte, una sequenza di costruzioni e rari profili di montagne- case, tetti, mura, spigoli di pareti, bastioni- che si rincorrono senza pause da un margine all’altro del foglio o della tela. Un intreccio di figure geometriche che seguono uno sviluppo lineare, rettilineo, come la scrittura occidentale che procede da sinistra a destra, in un percorso di crescita continua, di dinamismo perpetuo e insieme di ordine.
Alla forza perentoria del vuoto (il fondo bianco, bagno di luce) si sostituisce oggi un fondo rigato di colore tenue, una sorta di spartito musicale da cui aggallano, come note sul pentagramma, le immagini degli ulivi feriti. Sono forme che prendono corpo, si muovono torcendosi, nello sbracciarsi dei rami spogli verso l’alto, come in una preghiera, relegando sullo sfondo le geometrie della città. Ancora una grafìa per immagini, agile e allusiva che si serve dell’immaterialità dell’acquerello, della delicatezza della tempera, in un processo di riduzione, di sintesi dell’elemento naturale in calcolata economia compositiva di forme e colori. La scelta cromatica si riduce all’ocra e al ruggine, talvolta affiorano inaspettati verdi, rossi, gialli che nulla hanno della
concretezza fisica e della materialità dell’elemento arboreo. E’ una metamorfosi del naturale in concettuale che dice la purezza della natura, come nelle parole di Piet Mondrian: “Modificare la natura per renderne visibile la purezza.” Ne nascono immagini in cui sono il respiro del mondo, l’affanno della materia, le sue pulsazioni. Teatro di una natura ferita in ogni suo elemento, della sua sofferenza.