Alcuni interventi critici

Il nostro paesaggio interiore

di Fiorenzo Degasperi

C'era una volta un mistico, un sovrano inafferrabile e proteiforme che voleva creare la città perfetta, fatta di templi, case, palazzi e castelli. Per far questo si avvalse di un mosaico di ruderi di antichità, di avanzi decrepiti e corrosi del passato, tutti elementi recuperati dai più famosi angoli del mondo. Però, in fin dei conti, rimaneva una città artificiale, una messinscena perfetta destinata a perire. E venne il giorno in cui iniziò il declino. E gli abitanti iniziarono una discesa agli inferi, verso la morte. E' sempre difficile cercare di "sognare" un mondo parallelo, cercare di coniugare la realtà con la fantasia, tracciare e delineare orizzonti e primi piani, reinventare architetture e geometrie non euclidee. In questa avventura irta di ostacoli si è incamminato, già da diverso tempo, Sergio Camin. Le sue opere, con il titolo "Sukartha", sono lunghe strisce sottili di paesaggi, che si confondono con i miraggi all'orizzonte, si alternano a sguardi indiscreti di forme-case incastrate tra montagne dolomitiche colte in primo piano. Un territorio nato dalla realtà e trasfigurato dalla fantasia, ritagli di mondo, scampoli di pensieri visivi, lembi di sogni ad occhi aperti e di camminate dentro l'anima della montagna e della natura formano un collage suadente, ammaliante, dolce e trasognato. Le case lontane diventano montagne e colline e, quest'ultime, si aprono ai nostri occhi come mura cieche fatte di quadrati, cubi, coni e triangoli. Il tutto depositato su quell'incredibile supporto che è la carta, ruvida, porosa, odorosa, piacevole al tatto e all'occhio, di cui oggi si sono dimenticati il valore e la millenaria storia, sommersi come siamo da video freddi, piatti, inodori, insapori. E' la tecnica che aiuta Sergio Camin ad essere un sognatore visivo. L'acquerello è formato da acqua e colore, da un segno che scivola via dalla realtà per apparire ai confini dell'orizzonte, là dove realtà e fantasia s'incontrano formando mondi e realtà paralleli. L'acqua purifica, feconda e muta le cose. L'acqua può essere estremamente delicata, sottile, ammaliante. Il colore non è mai forte, robusto, violento. Si stempera, si mescola, si contamina. Il segno che ne risulta è un gesto danzante, armonico e musicale. La striscia colorata è una forma di pentagramma cartaceo da cui proviene una musica soave e meravigliosa che solo gli amanti delle foreste abitate dagli esseri fatati possono cogliere appieno. Sono luoghi dove l'uomo è escluso. Oppure è nascosto. O, forse, le stesse forme sono una sorta di grande corpo dove niente è vero ma tutto è veridico, per un parallelismo tra realtà raggiunta e realtà raggiungibile e l'artista ci porta a contemplare con occhi nuovi il nostro paesaggio interiore. Sicuramente Jorge Luis Borges sarebbe rimasto imprigionato da questa pittura intrigante che narra di mondi possibili, di montagne probabili e di città metafisiche.

Camin Sukartha

di Elio Vanzo  Direttore Museo d’Arte Contemporanea Cavalese

E’ uno skyline infinito ciò che Sergio Camin propone attraverso le minute ma sostanzialmente descrittive architetture utopiche, poiché lo spazio dell’immaginazione sembra protendersi ed espandersi oltre i limiti fisici del foglio che le limita ai margini.

E’ l’incontro del particolare con l’universale, per via di una assenza di reali connotazioni che non farebbero che sviare i sogni d’orizzonte verso approdi troppo definiti.

Lidi di pace e di quiete paesana e domestica, fortezze impassibili ed inquietanti , gruppi di architetture industriali svuotate della loro funzione, l’irrompere della storia nelle rimembranze di palazzi e castelli: il tutto alternato da un avvertimento della presenza della natura personificata da montagne altrettanto ignote.

Immagini ricondotte per accenni al dejà vù  dei viaggi e delle visioni impresse nella memoria di ognuno, e riportate a galleggiare alla luce

di un nostro personale orizzonte ottico, capace di svelare i piaceri o, all’opposto, le inquietudini dell’ abitare il complesso paesaggio fin qui creato dall’operare umano.

La nostra intima percezione del mondo qui  si svela attraverso un viaggio che sembra adattarsi alla notevole velocità di attraversamento dei luoghi e delle culture, caratteristica della nostra epoca, con conseguenza di continui ed estranianti cambi di veduta.

L’opera di Camin non intende insegnare la corretta percezione dei paesaggi possibili ma piuttosto una più profonda percezione di questi in rapporto a noi stessi, che li attraversiamo nello spazio ma anche, in definitiva, nel tempo. Perché, citando Pessoa, ‘il viaggiatore è il viaggio: ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma quello che siamo’.

RESPIRARE IL SILENZIO

di Marina Pizzarelli

“La città è un agglomerato, un ammasso di prossimità, […] è l’inestricabile che ne forma la sostanza”. (Max Ernst)

Attraversare l’inestricabile. Coglierne risonanze e connessioni.

Le strisce di paesaggio di Sergio Camin (profili di città, scampoli di montagne) narrano i percorsi dello sguardo e del pensiero, ricuciti dalla memoria, in una grafia per immagini, una sorta di scrittura veloce, encefalogramma o elettrocardiogramma, perché mente e cuore vi convivono. Un’ulteriore tappa dell’ininterrotta e sempre attuale storia del paesaggio nell’arte occidentale, a raffigurare la città contemporanea, asimmetrica e irregolare, priva di centro, sottratta ad ogni tipo di gerarchia, una sorta di orizzonte mobile in un divenire senza meta. Ma ecco qua e là i segni del passato –profili di chiese torri palazzi- immancabili presenze nel paesaggio urbano italiano.

È come un mondo rimescolato, privo di un inizio e di una fine, un labirinto aperto nel quale dall’accumulo di tessere eterogenee derivano inediti rapporti.

Singolare tipo di urbanista (o di pianificatore territoriale), Sergio Camin sembra dirci che la realtà intera è il prodotto di una composizione, di una sottile e paziente trama di forme che il pittore deposita sul foglio, in un mosaico di elementi, tocchi, geometrie. Perché qui la geometria è sovrana; e al caos contemporaneo della “città che sale” sembra contrapporre i principi astratti della “ città ideale” quattrocentesca. Ma in uno “smontaggio”, in una riduzione bidimensionale della finzione prospettica, fino ad una piatta linea di fondo.

L’alternarsi di edifici e montagne, di artificio e natura, è descritto con precisione e regolarità geometrica. Assente il disordine, la presenza romantica di sentimenti tumultuosi, assente l’uomo; piuttosto una sorta di neoarcadia, dove il colore si smorza in delicate cromie interrotte solo da rari sorprendenti tocchi di rosso, di giallo, e diventa, nel suo alternarsi all’ombra, luogo di interrogativi sommessi, di indagine sottile.

Tutto scorre sul fondo monocromo, anzi sul vuoto –il bianco materico della pagina- in una sintesi che tende progressivamente all’astrazione metafisica, alla riduzione a segno minimale, grafia sottile che include l’orizzonte, vi si identifica fino ad annullarvisi: un paesaggio costruito in un processo di sottrazione fino ad ottenerne un’immagine sospesa, precaria.

Ai limiti concettuali della cultura occidentale che concepisce il vuoto come negazione, estrema assenza, qui l’artista oppone la visione orientale per cui il vuoto ha un’identità positiva, più che un concetto è un’esperienza: luogo di tutti gli accadimenti, ha una funzione costitutiva per ogni cosa e dunque determina il pieno (l’immagine) che a sua volta permette di sentire tutta la forza perentoria del vuoto. L’immagine non è unica protagonista, non occupa il vuoto, ma al contrario dipende dalla tensione generata dal vuoto.

Lo spazio e la luce che circondano le cose ne sono anche parte, anche perché ogni fenomeno è percepibile non solo dai sensi, ma dalla memoria, dall’attesa, dalla condizione psicologica, in una serie di echi indefiniti che divengono territorio fertile per l’immaginazione.

Camin ridisegna la forma urbis. Progressivamente si libera di quel che è superfluo per approdare ad una sintassi spoglia e rarefatta. Sembra di respirare il silenzio.

La casa perenne: il brano orchestrale di Sergio Camin

di Corinna Conci

 

La base sicura, l’appartenenza, la protezione possono diventare una musica, una scrittura di case su uno spartito. “Un’indagine sull’abitare” potrebbe essere il titolo della composizione. Si presenta attraverso questi temi il nuovo ciclo di lavori firmato da Sergio Camin, seguendo il capitolo precedente della sua produzione e crescendo, evolvendosi in una personale ricerca del segno.

La casa, questo valore assoluto, posto d’unione, nucleo al quale appartenere, viene distribuita orizzontalmente come la costituzione di una storia che narra il bisogno di struttura dell’umano. Il contenuto di un’abitazione passa in secondo piano: tutto è sul senso del contenitore e sul significato del contenimento. C’è una profonda relazione con l’architettura, amata dall’angolo della prima pietra fino al tetto che ferma la luce, l’acqua e la neve dal cielo. I fenomeni che incontrano le costruzioni ne mettono alla prova la protezione e vengono ritratti qui come una parte della struttura: così il riflesso del sole e della luna delinea le mura, rivelandosi meravigliosa decorazione che ne costituisce la forma finale. Si tratta di un evento estetico che dichiara, in un certo senso, le tracce umane come parte integrante del territorio. Così la dimora rientra nell’ambito della geologia, la caverna diventa alloggio moderno, inno di bellezza somigliante alla natura. Ma nelle case di Camin, dentro, non si entra, o meglio: non si può vedere se c’è qualcuno o qualcosa, perché non si può scorgerne l’interno. Sono case abitate? “Sono case abitabili” risponde l’autore, lasciando un mistero su ciò che succede dietro le massicce pareti.

L’impaginazione creata da linee che nascono dall’esperienza di grafico dell’artista, tracciano perfettamente le zone edificabili della tela o della carta: ne nascono rocce sedimentarie o cementi, colori gialli caldi o grigi freddi, che occupano lo spazio di un racconto. Narrano del nido dove si torna, la zona riconosciuta franca, sicura perché immutata nel tempo. Attraverso le ere, l’insediamento antropico è infatti diventato più stabile, solido, fortificato, tanto da sembrare perenne. E qui ci si ferma, perché la percezione è di qualcosa che resta, ma di nuovo in qualche modo similmente alla natura. In questo emergere di volumi sulle partiture di Camin, ci si accorge infatti di stratificazioni che ricordano l’arenaria: la pietra che ospita tutto ciò che è passato su questo pianeta. Si capisce allora che si tratta di costruzioni capaci come montagne di resistere a quello che passa, fino ad essere abbracciate dalla sabbia per nascondersi negli strati della sua terra, per continuare a esistere per sempre.

 

Oggetti cognitivi a Nord Ovest.

di Corinna Conci

Lamine di scogli, scogli che appaiono acciaio. Un conto inimmaginabile di livelli, sovrapposti e fusi insieme, generano racconti esternamente illeggibili. Spessi strati di pagine di dolomia oppure liste di ali sottili, grigie lucenti: il soggetto assoluto di questi scenari è il tempo che diventa materia. Ma è una materia che ha la fattezza dell’immagine e la consistenza delle idee.

Sergio Camin ci presenta questa volta un ciclo di lavori incentrato sulle rocce del mare di Nord Ovest. A matita e acquarello sorgono cumuli, puri oggetti cognitivi: si tratta di scogli che sono macigni oppure briciole, gruppi montuosi statici o piccolo ghiaino che scivola in altri posti. Fondati saldamente al centro del pianeta terra, oppure leggeri, fluttuanti senza un peso?

Sopra e sotto queste figure ci sono mari che possono essere anche cieli. I protagonisti sono attorniati da linee che manifestano una trascrizione di vibrazioni, forse traduzioni visibili di segnali elettrici. Tutti i corpi, infatti, conservano in sé un codice di energie, dimostrandosi così entità fisica e spirituale insieme. Ma non solo. L’artista fa diventare questi scogli elementi quasi eroici, perché pensieri che portano in sé un altro mandato, preziosissimo: veicolare il processo della nostra mente. Come? Dentro di noi le sensazioni e le percezioni della realtà si trasformano, diventando immagini. Ma l’immagine trattiene una sua necessità, una mutazione ulteriore in traccia, un canovaccio narrativo. Ed è da qui che nasce infine una storia: viene generata una continuità nel tempo che stratifica gli eventi, che contiene il bello e il brutto come il buono e il cattivo, senza buttare nulla. In questo modo scriviamo dentro di noi le nostre storie, compresa quella della nostra vita.

Presentare così porzioni di minerali, apparentemente residuali e magicamente equilibrati nella scompostezza, fa acquisire loro valore di materiali che contengono il senso dei sentimenti, anche quelli di cui vorremmo non avere ricordo. E queste informazioni capaci di essere pensate e tenute, sono lamine d’esperienza: questi scogli, allora, si svelano identità. Sezioni delicate di granito, leggibili solo da dentro, resistenti alla scalfittura, non ancorate, affastellate in modo scoordinato, queste rocce trattengono il mistero più semplice: non cessare mai di dimostrare la propria inconsumabile presenza.